Pesca a strascico, la devastazione ambientale comincia sul fondo del mare - Linkiesta.it

2022-11-07 16:49:49 By : Ms. Angela Her

Pesci catturati e sollevati in enormi reti da pesca, gettati sul ponte del peschereccio e lasciati a morire, boccheggianti, prima di rientrare in porto. La pesca è di gran lunga la minaccia più grave al mondo marino, anche più del riscaldamento globale, delle microplastiche e degli sversamenti di petrolio. Ma una in particolare ha effetti devastanti sugli ecosistemi acquatici: è la cosiddetta pesca a strascico, quella che prevede il trascinamento di una vasta rete sul fondo del mare, pensata proprio per massimizzare la cattura di pesce. Una tortura per le specie marine e una garanzia di distruzione senza eguali.

Come se ci fosse ancora bisogno di prove per confermare l’insensatezza e la crudeltà dell’uomo quando si tratta di ambiente, anche sui fondali marini se ne trovano i segni. La pesca a strascico è tra i metodi di pesca più diffusi al mondo, ed è il più brutale per almeno due motivi. Il primo: malgrado esistano diversi tipi di reti (la sogliolara, per esempio, viene impiegata per la pesca di pesci di fondo come sogliole e razze e di molluschi come telline e vongole, mentre la gangamella è una rete più piccola, utilizzata per la cattura di crostacei), l’effetto è comunque lo stesso: ovunque queste passino, le specie marine sono in pericolo.

La non selettività del metodo, infatti, fa sì che la rete si porti via tutto ciò che entra nel suo raggio: non solo i pesci commerciabili, ma anche altre specie, piante marine e numerosi organismi che, sebbene non siano commestibili, sono essenziali per l’equilibrio dell’ecosistema del mare. Capita che persino le tartarughe si ritrovino impigliate nelle reti, soffocando in mezzo agli altri pesci. Tutto ciò che viene pescato senza essere voluto prende il nome di bycatch: pesci “inutili”, che vengono ributtati in mare, spesso già morti. Secondo la Fao, ogni anno nel mondo ben 7 milioni di tonnellate di pesce vengono rigettate in mare.

Contrariamente a quanto si pensava fino a qualche decennio fa, gli habitat marini profondi (cioè a oltre 200 metri) sono caratterizzati da una ricca biodiversità e ospitano molte specie endemiche e commercialmente importanti

In più (ed ecco il secondo motivo), le reti distruggono il fondale che attraversano, spesso in un sol colpo, riducendo drasticamente le possibilità di recupero. E nel momento in cui una certa porzione di fondale viene abbattuta, i pescherecci industriali si spostano via via più a fondo, proseguendo la devastazione. Non si tratta solo di ridurre lo stock di pesce disponibile in mare: il passaggio delle reti determina anche un impoverimento della biodiversità. E se pensate che sui fondali più profondi si trovino solo pesci brutti e inutili, che dire, dovrete ricredervi.

Secondo uno studio del 2014, infatti, «contrariamente a quanto si pensava fino a qualche decennio fa, gli habitat marini profondi (cioè a oltre 200 metri) sono caratterizzati da una ricca biodiversità e ospitano molte specie endemiche e commercialmente importanti. Rispetto alle aree caratterizzate da acque poco profonde, l’impatto della pesca a strascico sugli ecosistemi bentonici in acque profonde [il benthos è una categoria del mondo naturale che comprende gli organismi acquatici che vivono a stretto contatto con i fondali o fissati ad un substrato solido, ndr] è ritenuto più grave e di lunga durata, a causa della loro minore capacità di recupero e della maggiore vulnerabilità». Il risultato? «Significative riduzioni del contenuto di sostanza organica (fino al 52%), un turnover più lento del carbonio organico (circa il 37%), e ridotta abbondanza di meiofauna (80%), biodiversità (50%) e ricchezza di specie di nematodi (25%)».

Da tempo si è ormai consapevoli dei problemi che la pesca, e in particolare la pesca a strascico, porta agli ecosistemi marini. Considerando che il sovrasfruttamento di una grossa porzione delle popolazioni di pesci dovrebbe portare al collasso della pesca commerciale entro il 2050, in più parti del mondo si è cercato di porre rimedio allo scempio. In Italia, per esempio, già da diversi anni si è deciso di vietare la pesca a strascico sottocosta, cioè entro le tre miglia marine e su fondali inferiori a 50 metri di profondità. In Europa, invece, le limitazioni sono state introdotte molto più di recente: solo a gennaio 2019 è stato approvato il divieto (dal 1 maggio al 31 luglio) di utilizzo di reti a strascico entro 100 metri di profondità e la riduzione dello sforzo di pesca del 10% per tre anni.

«La pesca nel Mediterraneo è un far West e questo sta portando a una crisi ambientale. Le autorità sanno qual è il percorso della sostenibilità, perché l’hanno già seguita per il recupero della pesca atlantica. Le timide misure approvate dal Parlamento europeo sono un passo necessario, ma abbiamo bisogno di più per salvare la pesca nel Mediterraneo»

Posto che il divieto è comunque molto facile da aggirare (lo strascico illegale viene largamente praticato sulle nostre coste), le misure adottate in Italia e in Europa rimangono comunque timide rispetto ad un’azione più mirata come quella di altri paesi. L’Islanda costituisce un ottimo esempio in tal senso. Trattandosi di un settore centrale per la sua economia (la pesca occupa una quota tra il 9 e l’11% del Pil nazionale) e considerando la pescosità dei suoi mari – la corrente calda nord-atlantica, continuazione della corrente del Golfo, incontra la corrente polare, determinando la risalita di notevoli quantità di nutrienti dagli strati più profondi del mare verso la superficie, i quali alimentano la vita del fitoplancton e zooplancton in superficie, che a loro volta sono ingredienti essenziali dell’intera catena alimentare dell’oceano – sin dagli anni ‘90 l’Islanda ha provveduto a regolamentare a dovere la gestione della pesca. Le leggi più importanti hanno previsto il divieto di rigetto (imponendo dunque che tutte le catture di pesce debbano essere portate a terra), la fissazione di un totale ammissibile di catture per ciascuna specie e la determinazione quote percentuali di cattura per armatori, aziende e singoli pescatori. Il sistema funziona alla perfezione, tanto che grazie al sistema delle quote si sono registrate diminuzioni sia dei rigetti in mare che delle catture vere e proprie.

L’Islanda si configura quindi come una best practice da prendere a modello, visto che anche sul tema della pesca a strascico ha adottato misure innovative che prevedono l’utilizzo di luci colorate nelle reti e speciali griglie che permettono di scartare i pesci più piccoli, evitando che vengano raccolti nella rete. Diverse di queste soluzioni sono già state suggerite dallo stesso Wwf e inserite in una sperimentazione a livello europeo che ha coinvolto diverse flotte, dall’Argentario a Mazara del Vallo, dal Portogallo alla Spagna. Gli studi hanno finora dato risultati incoraggianti, riducendo in maniera significativa la cattura di pesci sotto-taglia ed anche i costi di miglioramento delle attrezzature, che non devono essere sostituite ma soltanto modificate, secondo quanto riporta Wwf.

Sicuramente si tratta di un inizio, anche se è difficile stabilire se sarà sufficiente a preservare la biodiversità marina nei nostri mari. Quel che è certo è che ancora molto rimane da fare, come ricorda María José Cornax, direttrice della strategia politica di Oceana Europa: «La pesca nel Mediterraneo è un far West e questo sta portando a una crisi ambientale. Le autorità sanno qual è il percorso della sostenibilità, perché l’hanno già seguita per il recupero della pesca atlantica. Le timide misure approvate dal Parlamento europeo sono un passo necessario, ma abbiamo bisogno di più per salvare la pesca nel Mediterraneo».

Attenzione: il video di seguito contiene immagini forti e non è adatto ad un pubblico impressionabile

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